Una cosa difficile è nato più di un anno fa da una specie di scarabocchio.
A volte accade che il segno preceda la parola. Mi capita anche con alcuni versi quando il gesto dello scrivere sta ancora cercando e cercando traccia segni che non sono ancora parole o frasi compiute.
Una cosa difficile però non è nato per caso. Era già lì e voleva scriversi in un modo diverso. Mi sono fermata quasi subito e ho chiesto a Sualzo cosa ne pensasse.
Devo aver detto qualcosa di simile: «Non so cosa sia. Adesso te lo faccio vedere. Devo per forza parlare perché sono segni incomprensibili, ma tieni conto che è una storia senza parole».
Per fortuna Sualzo è intelligente e ha molta immaginazione. Arrivati in fondo mi ha detto: «Ci sono. Provo a disegnarla subito».
Così ha preso in carico una storia che c’era e non c’era e l’ha portata nella realtà. Ha tolto il verde che avevo pensato e ha lasciato solo l'azzurro. Ha scelto un pennello per un segno nuovo. Mi è piaciuto subito e quando ha finito ero al settimo cielo.
Dicevo che
Una cosa difficile è come se ci fosse sempre stato perché purtroppo è una storia autobiografica. È quello che mi succede quando devo percorrere la distanza minima che mi separa da qualcuno con cui è andato storto qualcosa. Soprattutto quando io sono in torto. Il più delle volte penso: «Non si aggiusterà mai». Il più delle volte scalo una parete vertiginosamente ripida per potermi riavvicinare.
Una cosa difficile è senza parole perché io, salendo la montagna, sono senza parole e fatico tantissimo nel tentativo di trovarle.
Da bambina vedevo che attorno a me il silenzio era praticamente l’unica soluzione da adottare nei conflitti e nelle incomprensioni.
Inutile dire che non mi ha aiutato.
Una cosa difficile è la storia di due. Perché l’arte di riavvicinarsi è una cosa che forse si impara davvero quando si è stretti per la prima volta in questo nodo originario di ogni altro legame. Due amici, due fratelli, due.
Recentemente mi è capitato di leggere alcune considerazioni sull’origine della coscienza morale nei bambini. Così ho scoperto che fino alla metà degli anni ’60 molti esperti sostenevano che nei bambini piccoli non fosse presente una vera coscienza morale ma che si orientassero seguendo principi eteronomi. Negli ultimi trent’anni però numerosi studi hanno invece segnato un cambio di direzione sostenendo che la formazione della morale potrebbe iniziare davvero molto presto nei bambini, intorno ai due anni, e che è forte il loro interesse per il mondo dei pensieri e delle emozioni proprie e altrui.
Uno studio in particolare, quello di Jerome Kagan, mi ha proprio toccata.
Raccontava come i bambini già prima dei due anni sarebbero particolarmente sensibili a tutti quegli eventi in cui ci sono, per vari motivi, oggetti non integri o evidentemente rotti.
Ad esempio una macchinina senza ruota, come accade al carretto in
Una cosa difficile.
Lo studio analizzava le loro reazioni emotive di fronte a questo oggetti ipotizzando che alla base di questa reazione vi sia una forma embrionale di coscienza morale, una specie di attitudine naturale che si attiva nei piccoli per rispondere al loro bisogno di unità e per far andare le cose nel «verso giusto».
Probabilmente
Una cosa difficile è nato anche dalla lunga osservazione dei miei figli.
Delle tante ruote rotte.
Dei carrettini che per loro ha costruito mio papà.
Della voglia di riparare, aggiustare, far funzionare di nuovo un legame dopo un litigio.
Qualche volta, quando erano molto piccini, mi chiedevano di accompagnarli a chiedere scusa. Io non dovevo far praticamente niente altro se non essere lì mentre loro tentavano una riconciliazione.
Credo sia un buon esercizio per gli adulti quello di salire in cordata con i bambini quando ce lo chiedono. Se capiscono di aver sbagliato qualcosa e sentono di voler essere perdonati da un amico o un fratello.
Salire su, insegnare loro dove mettere i piedi.
Mai spingerli, non tirarli, non obbligarli. Possibilmente stare zitti e lasciare che l’unica parola che serve la dicano loro.
Aiutarli se vogliono riparare quella ruota.
Stare in cima a quella che a quel punto tornerà a essere semplicemente una collina e vederli scivolare felici giù, di nuovo in due, sopra un carrettino che funziona “per il verso giusto”.
Abbiamo presentato
Una cosa difficile per la prima volta ai bambini durante il
festival "L'isola delle storie" a Gavoi dove, grazie a
Teresa Porcella e
Bao Publishing, era presente nella mostra dedicata al silent book.
Dopo una lettura zitta zitta, accompagnata solo dalla musica dell'ukulele, abbiamo ascoltato le interpretazioni dei bambini, le loro osservazioni.
Poi ci siamo messi a disegnare una storia senza parole.
Occhio agli ultimi due titoli che danno una precisa collocazione spazio-temporale al laboratorio.
Un ringraziamento particolare a due bambini, due fratelli.
Emma e Carlo Piu capaci di rendere facili le cose più difficili.