giovedì 6 marzo 2014

La poesia, per me


Per me è arrivata presto.
La poesia, dico. Da bambina, certo (la prima poesia che scrissi ce l'ho ancora ed è dedicata a un albero... niente di che, ma ricordo benissimo quanto mi piacque spostare parole e suoni come mattoncini, cercare una rima) tuttavia è stato da ragazzina che ho capito che non l’avrei più lasciata. Quando ho scoperto che era una specie di palombaro che andava giù, era in grado di respirare dove io non avrei potuto e riemergeva con cose che non immaginavo di sapere. 
Non avevo molte occasioni o persone con cui condividere questa scoperta così ho iniziato a partecipare ai concorsi più disparati. Almeno qualcuno avrebbe dovuto leggere. 
Ricordo con affetto le domeniche passate in auto con i miei per raggiungere questa o l’altra località e ritirare premi. Se la meta era lontana, lasciavamo perdere. Una volta venne la giuria stessa, da Milano, a suonare alla porta. Volevano consegnarmi il premio che non ero andata a ritirare. Vollero fare una foto nell’orto di mio padre, tra i suoi carciofi. 
Per un po' lasciai perdere i concorsi.
Visto l'interesse per la letteratura, i miei mi spedirono allo scientifico. Per fortuna lì trovai un professore di italiano che mi fece da scudo e corazza. Leggeva tutto quello che scrivevo, mi consigliava libri e me li faceva raccontare in classe. Mi insegnò come si correggevano le bozze (scriveva per diverse case editrici testi di latino e antologie) e mi spedì al piano di sopra dove c'era, udite udite, una poetessa. Una professoressa che mi mise in mano Sandro Penna e mi consigliò una sola cosa: taglia.
Sempre al liceo, una folgorazione. Una locandina appesa al muro. Sulla cornice delle mani e delle stelle (o delle mani che sembravano stelle) disegnate da Massimo Giacon. La dicitura era qualcosa come Laboratorio di scrittura. Telefonai al numero indicato e mi presentai: ottenni il mio primo appuntamento con la scrittura. Il laboratorio era tenuto da Antonella Giacon, un'altra poetessa. Segno che i poeti erano davvero vivi e vegeti. Ero la più piccola del gruppo ma stavo benone. Ero nel posto giusto. Due ore fitte a scrivere, leggere e ascoltare quello che gli altri scrivevano. A volte c'era della musica, sempre c'erano colori, pennelli, matite. E' lì che ho preso coraggio, dall'ascolto paziente di Antonella, dai suoi versi, da quel tempo rubato che ho capito sarebbe diventato qualcosa di mio, qualsiasi cosa avessi fatto nella vita. Ho ripeto l'esperienza e di volta in volta si cambiava posto: un'aula di scuola in orario serale, un circolo in cui si praticava danza-terapia, un ufficio comunale, una biblioteca. Mi è sempre piaciuto il fatto che dovessi andare a cercare qualcosa e qualcuno, che non fosse così facile, che dovessi volerlo davvero.
Chiesi di entrare in un circolo di poeti della mia città che, per sdrammatizzare, si chiamava Il merendacolo. Bravissimi poeti come Walter Cremonte, Vera Lucia de Oliveira, Gladys Basagoitia Dazza, Ilde Arcelli, mi accolsero con attenzione. Il nome era buffo ma il lavoro era vero. Si studiava la poesia del novecento e si invitava un poeta al mese: Luzi, Bertolucci, Giudici, Pecora, Bellezza, Spaziani, D'Elia, Fortini, Cucchi, Zanzotto, Raboni, Loi…
Raccolsi le mie prime poesie a sedici anni, un librettino. 
L’estate, per festeggiare, misi su una specie di mostra in cui dicevo che cosa fosse per me la poesia. Inchiodai una seggiola a una parete perché mi sembrava bello sottolineare la possibilità, scrivendo versi, di cambiare prospettiva.



Ho continuato a scrivere per necessità e per amore. In quella stessa estate infatti avevo incontrato quello che sarebbe diventato da lì in poi il mio primo lettore (e anche il mio sposo. Sì, per questo ci sarebbe voluto ancora del tempo, ma io ne ero certa). 
Dopo qualche tempo, per lui, approntai una mostra, un accerchiamento di tronchi che, sulla sommità, tenevano ritte in piedi delle poesie scritte sulla pietra.  I tronchi erano disposti in modo circolare, tutto intorno avevo montato le lenzuola di lino di mia nonna che scendevano giù dal soffitto alto. 


Si entrava uno alla volta, scostando un lembo bianco, dentro i rumori erano attutiti. Al centro un tronco vuoto, più basso. Un austero sgabello per l'imputato. Eh, sì. Ci eravamo appena conosciuti e già persi. Non poteva andare così. Allora ho scritto le poesie e lui è venuto a sedersi. 
Poi ci sono state altre, tra cui uno spettacolo a teatro dove un attore leggeva testi di Antonio e lui suonava... Insomma, la poesia ci è stata d'aiuto ed è andata come è andata.

Scrivevo quando le poesie arrivavano. Leggevo in pubblico, le portavo al mio professore di letteratura con il quale potevo parlare liberamente e che mi consigliava poeti sulle scale, andando o venendo da una lezione all'altra. 
Un bravo scrittore mi incoraggiò inserendo un articoletto su di me in un suo libro (Erri De Luca, Alzaia, Feltrinelli). Venne fuori la mia prima raccolta. Quella sì, vinse un bel premio come opera prima (il premio intitolato a "Diego Valeri") che mi ripagò largamente per aver venduto il mio windsurf partecipando alle spese di stampa. Avevo ventitré anni e non potei andare alla cerimonia di consegna. Dopo qualche giorno nasceva infatti Beatrice. Recuperammo qualche tempo dopo con Antonio che cambiava pannolini mentre io, a mia volta, ero in giuria con Tiziano Scarpa.
Alcune poesie vennero scelte per un’antologia in una collana diretta da Maurizio Cucchi.


Poi Beatrice da crescere,la tesi sulla poesia di Primo Levi, lo studio della teologia, il lavoro, Giovanni e Teresa. Ho scritto sempre. Qualcuno, vedendomi alle prese con i bambini, la scuola, la spesa, la casa in un'età considerata ancora, diciamo, di esplorazione, mi chiedeva un po' divertito (come se la poesia e la vita non andassero d'accordo): "E le poesie? Le scrivi ancora?"
"Sempre", rispondevo.
Intanto scrivevo anche per bambini e ragazzi con entusiasmo, iniziando da zero. 
La poesia è rimasta.
Con i miei figli, nel mio colloquio più intimo e segreto, sono venute fuori prima le rime che le parole. Ma non ho mai pensato di scrivere poesie per bambini, tantomeno per ragazzi.
Solo una volta, quando ho scritto Fiato sospeso, ho infilato nel libro qualche poesia come se fosse scritta dalla protagonista.
Poi ho lasciato una poesia alla corrente, come si fa con una barchetta. E qualcuno l'ha pescata. Ne ha aperto le pieghe, ha letto ben bene.

Grazie a lei, tra qualche giorno, una novità.



3 commenti:

  1. Batte, forte il cuore…
    Ne sono felice, Silvia, tanto.

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  2. Grazie Sonia! Sento molto il tuo affetto... E ti ringrazio anche di tutto il lavoro che hai fatto su Fiato sospeso. Per noi quella è stata davvero una sorpresa e un grande incoraggiamento.

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  3. che belle immagini! un grande talento e una grande storia, riassunti in queste splendide righe!

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