Questa primavera mi è capitato di portare Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa
intorno (Topipittori) ai bambini della scuola Marconi e
alla scuola Bellini di Brescia per alcuni incontri e laboratori.
Due delle classi che ho conosicuto, grazie alla loro maestra Chiara,
facevano colazione ogni mattina con la poesia. Mi hanno mostrato come. Sulla
cattedra una scatola di cereali tutta decorata. Accanto una tazza. Dentro la
scatola, da prendere con la mano o un cucchiaio, biglietti con i testi di tante
poesie. Si pesca e si legge una poesia a sorpresa prima di iniziare la giornata.
Un regalo, un ascolto gratuito che ripetuto giorno dopo giorno diventa un
nutrimento continuo e profondo.
È stato in una
di queste classi che, al momento delle domande, una vocina mi ha
chiesto: «Qual è la poesia che ti è sembrata più difficile da scrivere?». Era una bella domanda. Quei bambini
avevano chiaro che la poesia può dire cose grandi e difficili, può suscitare
domande, emozioni forti. Anche in chi scrive.
Quando scrivo poesie, scrivo piccino e ingarbugliato.
Lettere come anelli, diverse cancellature, ritorni, linee tirate sopra.
Poi ricomincio e riscirvo tutto da capo. Tre, quattro volte. Più o meno le
stesse cose, spostando sempre un poco, cercando di mettere a fuoco. Quando la
poesia è fatta, la rileggo più volte. Quando la so a memoria capisco se c’è o
non c’è.
Ma una volta detta, è detta. Difficile tornare in dietro
anche se la cosa che ho scritto non è piacevole, mi rivela qualcosa che non
desidero ascoltare in quel momento, sbroglia una matassa complicata che non
avevo voglia di lavorare.
La poesia sa dire la verità e, a volte, me la dice nel finale. Al liceo il mio professore di
letteratura italiana e latina, chiacchierando delle mie
poesie, mi fece un complimento con un prestito strano: fulmen in clausula o in cauda venenum. Avevo e ho davvero
ben poco a che fare con Marziale ma è vero che mi piace lasciare in coda qualcosa che
resti come una piccola spina. Nella dolcezza, nella sorpresa o nella durezza.
Volevo rispondere alla domanda sulla poesia più difficile e mi è venuto in mente un testo in particolare che si trova nel libro di poesie In
mezzo alla fiaba (Topipittori, illustrazioni di Arianna Vairo).
Dopo averla scritta mi ero chiesta a lungo se poteva essere una poesia per bambini. La
chiusura era dura. Diceva una cosa che non volevo dire, che non mi piace dire
né fare, che con tutte le forze cerco di imparare a rifiutare.
Male per male.
Però la voce che parla nella poesie parla ai capretti. E c’è
un lupo che bussa e si camuffa nel peggiore degli inganni. Allora per ripondere
alla domanda sulla poesia più difficile ho raccontato qualcosa di questa poesia
e l’ho letta ad alta voce.
Ai bambini si chiede di essere gentili. Buoni. Educati.
Generosi. Affettuosi, misurati, fiduciosi. Bene. Putroppo bisogna anche che
siano pronti a mordere, urlare e dare calci nel sedere.
Alla fine abbiamo riso. Io ero un po’ commossa.
Una fiaba, una delle prime che ho ascoltato, una fiaba breve
di quelle che facilmente si tengono a memoria. In me ha suscitato rime chiare e
un pezzetto del mistero del male.
Miei capretti, occhi aperti.
***
Grazie ad Arianna Vairo per queste zampe rosse.
Grazie per i capretti che sono sei così ogni volta li conto
con i bambini e finiamo per essere d’accordo che il più piccino si è già
nascosto nella pendola.
Grazie infine per quella porta che divide, per quel campanello che di sicuro non c’era nella
casa dei capretti ma nelle nostre case sì.
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